A molti di noi sarà probabilmente capitato di sentire l’impulso di aiutare una persona cara a superare un momento difficile. In questo caso, proviamo una sorta di “malessere empatico”, che ci spinge a trovare delle soluzioni per farla stare meglio. Questo atteggiamento interventista porta con sé spesso un’illusione: nel migliore dei casi il risultato che otterremo sarà “zero”, e nel peggiore sarà quello di danneggiare proprio chi si trova in difficoltà. Perché cercare di aiutare qualcuno, risolvendogli il problema, porta a questi risultati?

Partiamo da un assunto. Ogni individuo che sta facendo esperienza dentro a un corpo fisico lungo il percorso si trova ad affrontare diverse avversità, che sono ovviamente diverse da quelle di tutti gli altri individui. Quando il nostro stato è afflitto, percepiamo tali avversità come un ostacolo al movimento. Esse invece sono uno strumento che ci permette di manifestare ciò che siamo, proprio attraverso il movimento di confrontarci con esse; potremmo dire sintetizzando che l’avversità è anche la nostra giusta posizione, poiché attraverso di essa l’individuo riconosce se stesso. Per comprendere meglio questa corrispondenza, pensiamo ai momenti in cui abbiamo dovuto affrontare le cosiddette prove della vita; se ci pensate bene, una volta superate grazie a esse abbiamo avuto la possibilità di scoprire parti di noi che ci erano ignote, poiché le ordinarie condizioni della nostra quotidianità non erano adatte a farle emergere.

Potremmo quindi dedurre che se preferiamo spostare l’attenzione sulle avversità altrui, invece che risolvere le nostre, significa che stiamo sfuggendo a esse perché non le vogliamo riconoscere e superare. Se non abbiamo la forza di affrontare le nostre sfide, figuriamoci quanto potremmo essere d’aiuto a qualcun altro. Immaginiamo di dover attraversare una pericolosa palude: dovremmo prima ingegnarci per poter sopravvivere, e solo successivamente potremmo pensare a come aiutare gli altri compagni ad uscire dalla melma. Dobbiamo dunque riconoscere con sincerità che non possiamo aiutare qualcuno a trovare se stesso, poiché noi stessi siamo in cammino lungo il percorso di ricerca verso la nostra identità, e non l’abbiamo ancora trovata.

Dunque, quando una persona cara ha un problema che apparentemente non riesce a risolvere, l’unica cosa che possiamo fare è quella di starle vicino e incoraggiarla. Se le risolvessimo noi il problema, quella persona si abituerebbe a non mettersi più in gioco, affidandosi al nostro intervento, bloccando così il proprio movimento. Poiché, come abbiamo detto, l’avversità ha un valore fondamentale per l’individuo, essa si ripresenterà finché egli non avrà, per così dire, imparato la lezione. Ciò che è richiesto all’individuo nel suo viaggio di ricerca è di essere responsabile di ciò che gli accade, e presente a se stesso; se nel corpo fisico in cui sta vivendo, dunque, è previsto che dovrà fare un’esperienza traumatica, o il suo stato lo porterà a confrontarsi con un “problema”, ebbene egli dovrà affrontarli da solo. È la sua avversità, e nessuno può e deve fare qualcosa per evitare che la viva.

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