La comunicazione umana è afflitta in modo quasi pandemico da un fenomeno, che potremmo chiamare le cose non dette. Quante volte ci è capitato di interagire con qualcuno, e invece di esprimere con le parole ciò che stavamo provando, lo abbiamo represso? Perché non abbiamo detto che eravamo turbati, ad esempio, da qualcosa che l’altro aveva affermato o fatto?

Se guardiamo con occhi da ricercatore le numerose situazioni in cui abbiamo preferito omettere qualcosa che ci infastidiva per “quieto vivere”, e le giustificazioni morali con cui abbiamo rivestito tali omissioni, scopriremo che abbiamo agito così per la paura di perdere il rapporto di convenienza con l’altra persona. Il rapporto era evidentemente basato su compromessi, sul “chiudere un occhio” riguardo alle supposte manchevolezze dell’altro, pur di non esporsi e di mantenere uno status quo di inerzia; si trattava, quindi, di un rapporto illusorio. In questo caso, rileviamo che chi si stava mettendo in relazione non era un osservatore, un’Anima che sta cercando se stessa in tutto ciò che ha intorno, bensì qualcos’altro. Chi si stava mettendo in relazione era infatti il principio di resistenza o egoista, quell’elemento atomico che interferisce costantemente con le nostre azioni e pensieri, ostacolando il nostro movimento di esperienza. Esso ci porta a interagire con ciò che ci circonda in modo afflitto, vincolando l’interazione con delle convinzioni.

Possiamo comprendere meglio questa dinamica con un esempio preso dalla geometria. Immaginiamo di essere un triangolo. Nella nostra relazione con il quadrato, il principio egoista appena descritto farà sì che noi ci relazioniamo con esso in modo ipocrita, nascondendo delle parti di noi. Potremmo, ad esempio, scegliere di celare uno dei nostri vertici, mentre il quadrato a sua volta ci nasconderà il numero dei suoi lati. Perché abbiamo paura di rovinare il rapporto mostrando ciò che siamo veramente? A causa delle nostre convinzioni, che sono ciò al quale l’egoista non rinuncerebbe mai. Le convinzioni delimitano e difendono una specifica struttura, una forma che vuole rimanere statica nel tempo, e resistere a ogni cambiamento. Ci illudiamo, per così dire, di “nascere e morire triangoli”, e che tutto il mondo debba rispondere alle nostre stesse regole di “triangolarità”.

Con questi presupposti, dunque, quando incontriamo strutture diverse dalla nostra, non possiamo mai realmente relazionarci con esse, bensì fingiamo di farlo attraverso un compromesso ipocrita e un rapporto illusorio, per la paura di mostrarci e di perdere la maggior parte delle nostre relazioni da un momento all’altro, poiché in fondo sappiamo che esse non sono reali.

Cosa accadrebbe invece, se operando da ricercatori iniziassimo a guardare le cose da una prospettiva più ampia? Il triangolo e il quadrato sono due figure differenti, ma questo non significa che esse siano incompatibili. Se ad esempio poniamo un triangolo isoscele sopra a un quadrato, otteniamo un pentagono. Abbiamo quindi una nuova forma, che fa crescere l’esperienza e l’orizzonte di ognuna delle figure che la compongono, e genera altresì un nuovo intero, aprendo le porte a tutte le infinite possibilità che esso potrebbe portare.

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