Durante una conversazione tra amici, a molti di noi potrebbe essere capitato di sentirsi dire “sono una persona empatica, riesco a sentire quello che provano gli altri”; è infatti diffusa la convinzione secondo la quale l’empatia è una sorta di superpotere per pochi, assimilabile alla comunicazione telepatica.

In realtà, la parola Empatia descrive un processo quotidiano che coinvolge tutte le forme viventi: quella umana, animale, vegetale, gli oggetti comunemente definiti “inanimati” e gli spazi, e si estrinseca attraverso una reazione chimica che possiamo chiamare concepimento. Questo implica che io posso sentire ciò che prova un’altra persona in questo modo: percepisco un contenuto emotivo, esso viene tradotto per quello che sono in quel momento, e diventa “mio”. Per esempio, se ci troviamo accanto a qualcuno che è spaventato, possiamo spaventarci, la sua paura può risuonarci dentro, ma essa non sarà la stessa paura, avrà una diversa forma ed espressione che parlerà di noi.

L’etimologia di empatia originariamente descriveva il rapporto di compartecipazione emotiva del cantore greco con il suo pubblico. È la stessa dinamica che si verifica quando guardiamo un film, ascoltiamo una canzone o leggiamo un libro. Ognuno di essi è un contenitore che è figlio del contenuto emotivo dell’artista che lo ha creato. Quando interagiamo con questo oggetto, la relazione empatica con esso genera un concepimento, che è il risultato tra il contenitore e ciò che suscita in noi. Aggiungendo ciò che noi siamo alla forma con cui entriamo in empatia, questa si arricchirà di un elemento in più, si espanderà, evolverà, e diventerà sempre più specifica, come avviene quando scopriamo un nuovo significato di una parola conosciuta.

Il processo empatico è in opera ventiquattrore su ventiquattro, e diventare progressivamente coscienti della sua azione trasforma la vita quotidiana in un laboratorio di ricerca di sé in perenne attività.

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