La società in cui viviamo e il modello comportamentale che la definisce influenzano tutti gli aspetti della nostra vita. In generale, la quotidianità è organizzata in ambiti percepiti come obblighi e doveri, e altri che sono correlati invece allo svago, al relax e al piacere. Molti di noi mentre si trovano al lavoro sono proiettati su quello che li aspetta una volta lasciato l’ufficio: un rilassante weekend, una cena con gli amici, o l’accoppiata film e divano, percepiti come il premio di una dura giornata. D’altronde, è l’etimologia stessa della parola lavoro, che deriva dal latino labor “fatica”, a suggerire che consideriamo questa attività come faticosa. Se lo guardiamo solo da questo punto di vista, il lavoro è però assimilabile a una forma di prostituzione: diamo in cambio il nostro talento, tempo ed energie, per uno stipendio che ci serve per goderci la vita e dunque stare bene.

In estrema sintesi, questo stare bene di cui abbiamo bisogno per alleviare lo stress lavorativo è riassumibile nella parola divertimento. Il termine deriva dal latino devertere che significa “divergere, allontanarsi da una direzione”, e implica quindi sostanzialmente non averne una, poiché ci si allontana dal proprio obiettivo, verso una falsa direzione senza scopo. Quando riceviamo una perturbazione, che ci spinge ad esempio a ricontestualizzarci per svolgere un nuovo ruolo, e dunque a muoverci con un obiettivo, la rileviamo generalmente come evento “molesto, pesante, fastidioso” da subire; la nostra tendenza dunque è quella di lenire la frustrazione che proviamo verso questa incombenza, svolgendo attività divertenti, come abbiamo visto in questo articolo. In questo modo, disperdiamo il potenziale creativo racchiuso nella perturbazione stessa.

Se ascoltiamo i nostri pensieri quando cerchiamo inutilmente di resistere a questa tendenza, vedremo che essi hanno a che fare con lo stress, la fatica, oppure con l’ansia da prestazione. In ogni caso si tratta di sensazioni che ci portano a stare nell’inerzia, e a percepire ciò che abbiamo davanti come obbligo o rogna di cui liberarci al più presto, invece che come opportunità di crescita. Tali pensieri sono stimolati dall’ente egoista che alberga in noi, che ci induce ad agire senza scopo, e dunque a divergere da tutto ciò che lo ha. Questa costante traenza verso l’inerzia e la staticità, una volta che le diamo forma, rimane altresì disegnata nel nostro sistema cognitivo, nella forma di circuiti neuronali chiusi e ripetitivi, che tendono a riconfermare se stessi.

Per superare la difficoltà a muoverci per raggiungere un risultato, occorre imparare a riconoscere quando un’azione ci porta conoscenza, e quando invece no. Ad esempio, se restiamo in ufficio oltre le otto ore canoniche perché “lo dobbiamo fare”, se chiudiamo velocemente tutte le pratiche richieste dal nostro capo per avere un aumento di stipendio, o per evitare che ci rompa le scatole, non stiamo producendo alcunché. Viceversa, quando ciò che facciamo si delinea come movimento creativo che porta dei frutti, esso ha un’utilità per il contesto in cui ci troviamo, e allo stesso tempo nutre noi stessi. In questo caso ci sentiamo felici e, come suggerisce l’etimologia della parola stessa, siamo fecondi.

 

 

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