Quando nasciamo, il nostro cervello comprende circa 100 miliardi di neuroni. Essi ricevono informazioni dall’ambiente esterno e interno al corpo, le integrano per produrre una risposta adeguata, e le trasmettono ad altri neuroni attraverso collegamenti chiamati sinapsi. Nei primi anni di vita, il cervello è al suo massimo potenziale: ogni neurone di un bambino di 2 anni ha circa 15000 sinapsi attive. A questa età, il cervello è come una galassia di stelle che creano infinite geometrie, interconnettendosi tra di esse. Il bambino è quindi onnipotenziario: è aperto a tutte le esperienze possibili e il suo impulso primario è quello di utilizzare la percezione sensoriale per raccogliere dati, imparare e quindi Cercare. Egli si muove in modo naturale, esplorando tutto ciò che incontra senza filtri, anche gli oggetti che noi adulti classificheremmo pericolosi o disgustosi.

Nel passaggio all’età adulta, il cervello indebolisce e successivamente disattiva le connessioni meno utilizzate, attraverso il processo di potatura sinaptica. Al contrario, quelle più utilizzate si rafforzano. Possiamo facilmente intuire che i neuroni privati della possibilità di interconnettersi, muoiono. Arrivati all’età di 30 – 40 anni ne perdiamo un numero esorbitante, circa 100000 al giorno, chiamando questo processo “l’essere diventati adulti”. Giungiamo dunque a un momento in cui l’attività cerebrale si stabilizza, si setta per supportare le nostre limitate abitudini mentali e fisiche. Fissiamo dei punti in cui ci riconosciamo, li delimitiamo con un muro e del filo spinato e ci diciamo: questo sono io. Quel muro contiene le affermazioni e le convinzioni che ci definiscono, e le giustificazioni per proteggerle. Ad esempio: mi chiamo Franco Rossi, sono un cittadino onesto, amo passeggiare in montagna e il mare mi annoia, i tatuaggi mi disgustano, la domenica guardo la partita del Milan, ecc. Smettiamo insomma di cercare: ogni possibilità al nuovo ci è preclusa.

Qual è la soluzione intelligente al decadimento del nostro potenziale umano? Quella di tornare bambini. Questo significa recuperarne il potenziale percettivo e conoscitivo; non si tratta di ispirarsi al modello delle pubblicità, in cui bambini biondi e sorridenti corrono spensierati in un prato. Rimuoviamo i vincoli che abbiamo tracciato per definire la nostra identità, realizzando che siamo qualcosa di molto più complesso e potente di quello che pensiamo. Usciamo dalla gabbia fatta di aderenze a un sistema conforme, nella quale ci siamo rinchiusi a un certo punto della nostra vita. Se quella che difendiamo con le unghie e con i denti fosse davvero la nostra identità, non avremmo bisogno di proteggerla: ciò che è, lo è e basta, non ha bisogno di conferme. Un leone non dà spiegazioni per la sua natura predatoria.

Recuperando l’istinto alla scoperta, la nostra identità sarà in continua trasformazione e movimento. Non riusciremo più ad ancorarci stabilmente a qualcosa di specifico, dicendo “questo sono e sarò sempre io”. Saremo degli esploratori, e con il vantaggio di un enorme bagaglio di informazioni sensoriali raccolte negli anni. Ci relazioneremo con ciò che ci circonda, con l’esperienza di vita di un corpo adulto e l’apertura a ogni possibilità di un bambino, stimolando e accrescendo il nostro infinito potenziale umano dormiente.

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