La parola Lealtà indica comunemente un valore morale positivo, che si può declinare ad esempio in un’amicizia che dura una vita, nel rapporto che ha un cane con il proprio padrone, o nella perseveranza di un cavaliere che crede nel suo Re. Analizzando l’etimologia di lealtà scopriamo invece che il termine definisce, in poche parole, il rispetto di un accordo legale. Lealtà deriva infatti dal latino legalis “legale”, e da lex “legge”. Quest’ultimo termine deriva a sua volta dal verbo ligare, che suggerisce l’obbligo di seguire una norma prescritta. Vediamo in modo più approfondito in che modo obbligo e lealtà sono collegati.

Innanzitutto cosa implica essere leali a qualcuno? Si tratta di un patto implicito o esplicito che ci vincola a stare dalla sua parte, a qualunque costo e qualsiasi cosa accada. Questo significa che gli siamo leali anche se compie delle azioni senza senso, o dannose per se stesso e per gli altri. Potremmo quindi arrivare a diventare leali complici di un omicidio, così come fidati membri di un’alleanza geopolitica a fini bellici, o anche efferati soldati che “hanno solamente obbedito a degli ordini”. È evidente che la lealtà così intesa è solo un’espressione di schieramento del tutto arbitraria. Se davanti a noi avessimo un leader in grado di muoversi con intelligenza, non avremmo bisogno di stipulare un patto che ci vincoli, perché sarebbe naturale stare al suo fianco.

Essere leali ha anche l’accezione di “giocare seguendo le regole”. Il modello di conformità in cui siamo immersi, e che si riflette interiormente nell’azione del principio egoista, valuta positivamente il rispetto di norme e standard prestabiliti. Lo rileviamo nella necessità sociale di un sistema legislativo, ma anche attraverso scenari più semplici, come una partita di calcio in televisione. In molti casi, il gioco di squadra e l’abilità dei giocatori entrano in secondo piano rispetto alle irregolarità calcistiche; spesso l’ago della bilancia di una partita sono proprio i falli, i rigori, le ammonizioni ed espulsioni. Quando assistiamo a una competizione calcistica, siamo facilmente soggetti a farci perturbare, e a identificarci nel ruolo di un severo arbitro. Siamo infatti tanto inflessibili fuori, nella nostra parte variabile, quanto e perché lo siamo interiormente, a causa dell’influenza dell’egoista, tranne che per ciò che ci fa comodo. Possiamo appunto immaginare questo ente come una sorta di arbitro estremamente reattivo, sempre pronto ad ammonirci per ogni azione o pensiero che non rientri nelle sue regole, e compiacente per ciò che invece vi rientra.

Attenendoci a essere dei perfetti esecutori di regole, stiamo però limitando la crescita del nostro orizzonte d’esperienza, che si espande quando sperimentiamo nuove sfide. Se pensiamo invece al comportamento dei bambini, ad esempio quando si sfidano a una gara improvvisata “a chi arriva per primo”, osserviamo che si attivano per vincere e ottenere un risultato, in una forma che il principio egoista potrebbe anche definire sleale. Il modo in cui si muovono i bambini per raggiungere uno scopo, ci insegna che per affrontare qualcosa di nuovo e ignoto ed evolvere, occorre adattarsi alle circostanze, scoprendo innovative modalità di interazione con gli oggetti, e utilizzando dunque l’intelligenza.

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