Comunemente si pensa che la felicità non sia nient’altro che un’emoticon sorridente, e abbia come caratteristica l’assenza totale di sforzo e di pensieri, come quando ad esempio passiamo una giornata in spiaggia, in totale relax, con un cocktail in mano e “senza problemi”. Al contrario, sono proprio quelli che percepiamo come problemi a fare la felicità, perché tutte le volte che l’intelligenza umana incontra un’avversità, si mette all’opera per trovare una soluzione, produce un risultato, è feconda. Come possiamo facilmente dedurre, il percorso umano è finalizzato alla felicità, e per comprendere meglio cosa essa sia, indaghiamo l’origine di questa parola.
Felicità deriva dal verbo greco phyo che significa “produrre, generare”. Un ente felice è dunque un ente fecondo, ovvero che produce dei risultati. Approfondendo questa riflessione, possiamo dire che ogni risultato proveniente da un ente è suo figlio, un suo sottoinsieme, ed è il frutto della sua relazione produttiva con una forma. Questa relazione ha inizio da un movimento creativo, con il quale trasformiamo quotidianamente una forma grezza in una raffinata, producendo un risultato, così come il pittore trasforma la tela e i colori in un quadro, o quando uniamo le uova e la farina per preparare un dolce, o ancora lavoriamo un terreno per realizzare un giardino.
Mettendo insieme le informazioni dell’articolo precedente sul lavoro, ad esempio, e l’analisi sulla felicità, amplieremo la nostra indagine. Se guardiamo le avversità e i “problemi” che incontriamo nella nostra opera quotidiana con occhi da ricercatore, scopriremo che essi non sono “scocciature di lavoro”, bensì un’impagabile occasione di sperimentare ciò che siamo. Il modo unico in cui risolviamo un problema, in cui cerchiamo la chiave adatta per relazionarci a un oggetto, parla di noi. Il risultato che otterremo avrà anch’esso a che fare con ciò che siamo, come avviene per un frutto e l’albero a cui appartiene.