Se desideriamo agire da ricercatori, è necessario che identifichiamo ogni cosa che abbiamo intorno in primis come strumento di esperienza, superando la tendenza ad assegnarle immediatamente valori positivi o negativi. Possiamo infatti facilmente rilevare che ogni oggetto non è in termini assoluti né buono né cattivo, ma è il contesto in cui viene utilizzato e la sua coerenza con tale contesto che determina il modo in cui verrà adoperato: per esempio un coltello può tagliare una bistecca, scolpire una scultura in legno, ma può anche ferire qualcuno. In ogni caso, se qualcosa esiste è perché ha uno scopo e una funzione.
Nella vita quotidiana, abbiamo a disposizione un enorme numero di strumenti, tangibili come un coltello o un orologio, e non tangibili ma altrettanto sperimentabili, ad esempio le emozioni e le espressioni della drammatizzazione emotiva come il pianto, la risata o l’urlo. Come ci sentiamo quando le sperimentiamo? Alleggeriti, svuotati, in alcuni casi stremati, come se avessimo posato un grosso fardello che abbiamo portato a lungo sulle spalle, o anche sollevati, perché liberiamo un’emozione che non riuscivamo più a trattenere. La drammatizzazione emotiva si manifesta spesso quando emerge il peso di un nodo importante: un nucleo tossico, un blocco che abbiamo in un punto della nostra storia e che ci impedisce di entrare in una nuova porta. Nel momento in cui lo sciogliamo, è molto probabile che il corpo lo manifesti attraverso un’intensa espressione emotiva, che ha lo scopo di farci “lasciare andare” qualcosa.
Ad esempio, il pianto fa sgorgare un’incontenibile sofferenza che abbiamo dentro, la risata toglie, alleggerisce, mentre l’urlo porta fuori la nostra rabbia, frustrazione o paura: dipende che cosa stiamo scaricando. Nello specifico, la funzione della risata è rilevabile osservando il risultato che porta: indipendentemente da ciò che la scatena, essa lenisce, sdrammatizza, svuotando il contenuto emotivo dell’oggetto che abbiamo davanti. Dunque, se da una parte indica la nostra incapacità di stare davanti a qualcosa che ci perturba e ci scuote, dall’altro in alcuni casi può essere una valvola che permette di alleggerirci. E se usata nella giusta misura e occasione, diventa a tutti gli effetti un rimedio terapeutico. Se ci troviamo in un momento di pesantezza, di sofferenza, la risata agisce come se fosse un antidolorifico: non risolve il problema, però ci offre un sollievo momentaneo, spostando l’attenzione dal dramma del momento che ci bloccherebbe.
Nel caso in cui emerga per farci togliere il peso da un nodo, non vuol dire che lo privi del suo contenuto originale, ma del suo altro contenuto, cioè della parte corrotta. Per esempio, se temiamo il giudizio altrui perché nell’infanzia non ci sentivamo accettati e venivamo presi in giro per una nostra presunta “stranezza”, o un’eccessiva riservatezza, nel momento presente potremmo essere terrorizzati dalle cosiddette brutte figure. Se un giorno dovessimo inciampare vistosamente davanti a tante persone, saremmo messi di fronte al nostro nucleo tossico, e una nostra eventuale risata in reazione all’evento avrebbe la funzione di svuotare il contenuto afflitto della vergogna, permettendoci di vedere cosa sta realmente accadendo. Teniamo infatti a mente che la risata può togliere anche un contenuto illusorio, permettendoci di guardare ciò che c’è dietro di esso: la vera esperienza, l’oggetto per quello che è.