Tra le inevitabili sfide da superare nel percorso di ricerca di sé, c’è quella di affrontare ciò che ci ripugna o ci atterrisce. La maggior parte di noi tende a evitare e rimandare l’interazione con un oggetto che ci suscita queste reazioni, non sapendo però che in questo modo agiamo esclusivamente contro noi stessi.

Abbiamo visto nei precedenti articoli che l’empatia è un processo risonante che si verifica ventiquattrore su ventiquattro per tutte le forme viventi, mentre la simpatia indica il movimento verso l’elemento che ha generato una risonanza, ovvero il modo unico che ha ognuno di noi di partecipare emotivamente a un evento. Aggiungiamo quindi un terzo elemento, che scaturisce dal movimento afflitto e si traduce nel rifiuto di un oggetto: l’Antipatia. Se ciò che ci sta simpatico ha un valore positivo, in quanto aderisce al nostro modello di conformità, ciò che è antipatico è invece qualcosa verso cui siamo “contro”.

Mettiamo di trovarci davanti a un oggetto per noi ripugnante, per esempio un serpente: come ci comportiamo? Scappiamo, ci blocchiamo, ci mettiamo a urlare, cerchiamo di ucciderlo; insomma, lo rifiutiamo assegnandogli un valore assolutamente negativo. Questo cosa comporta? Fermandoci alla sensazione di antipatia, la comprensione di ciò che è quell’oggetto e il motivo per cui esso ci susciti tanto ribrezzo, ci saranno preclusi. Qualcuno di noi potrebbe pensare in modo menefreghista “vabè, ma tanto è solo un serpente, non devo averci a che fare quotidianamente!”. Questa affermazione è limitante, e indica un atteggiamento di inerzia inverso a quello che avrebbe un ricercatore.

Se desideriamo diventare dei ricercatori, dobbiamo invece indagare il fenomeno dell’antipatia, partendo ad esempio da questo assunto logico: se una forma esiste, essa ha uno scopo e una funzione. Scopriamo dunque quali sono, e perché proprio a noi questa forma provochi una tale intensità emotiva e sensoriale.

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