Nell’epoca decadente in cui viviamo, la reputazione, le “brutte figure”, il “non essere all’altezza”, hanno un’importanza capitale. Esse degenerano nel fenomeno del bullismo, nell’ossessione per la propria immagine, e nel potere persuasivo degli influencer. Questa ricerca di un feedback è figlia del modello di conformità “premio-punizione”, a cui molti di noi sono stati educati. La naturale dinamica del dare-ricevere, che implica che ciò che facciamo ha valore di per sé, a prescindere dalla risposta che possiamo ottenere, viene messa completamente da parte.
Per chiarire il concetto di Valore, può venirci in aiuto l’etimologia. La parola Valere e il suo derivato Valore indica qualcosa di “forte, sano, robusto, vigoroso”, ed è correlata alla Radice Primaria PA, che significa “nutrire, sostenere”: ciò che ha valore è ciò che ci nutre e sostiene.
Potrebbe capitarci, per esempio, di assistere alla serata di pianobar di un musicista, che mette in opera la sua musica per il solo piacere di farlo. Se lo osserviamo a fine serata, potremo scorgere in lui i segni della stanchezza fisica, ma la sua capacità di suonare con passione e di trasmetterla al pubblico sarebbe immutata; anzi, essa si autoalimenterebbe, crescendo con l’esecuzione dei brani. Il valore di quel musicista, ovvero ciò che lo nutre e sostiene per il fatto stesso che egli mette in movimento la sua arte, senza secondi fini, è questo.
Se, dunque, desideriamo agire da ricercatori, possiamo utilizzare la necessità o meno di ricevere un feedback, come indicatore della direzione che stiamo prendendo: se, quando facciamo un’esperienza, ci sentiamo soddisfatti per il solo fatto di averla compiuta, e non abbiamo bisogno del pollice in su di qualcuno, essa ci farà espandere la conoscenza di noi stessi e di ciò che ci circonda. Se, al contrario, siamo dipendenti dal tipo di risposta che riceveremo, stiamo simulando quell’esperienza, e non siamo presenti mentre la viviamo.