L’ipocrisia, in quanto afflizione inerente alla difesa della propria immagine e “buona reputazione”, può essere osservata quotidianamente, ad esempio nel contesto dei social network.
Immaginiamo un convinto animalista, per dirne una, sempre attivo sui social, e che ha tanti contatti che condividono la sua causa. Nei suoi numerosi post sull’argomento, magari corredati di foto strappalacrime di allevamenti industriali, egli sottolinea quanto “chi ama gli animali” abbia molta più umanità di chi non li protegge. Si evince subito la distanza che l’uomo mette tra se stesso e chi lo legge, tra la sua virtù e l’altrui mediocrità. Un giorno l’animalista viene “taggato” nella foto di una serata al ristorante, in cui ha nel piatto un’enorme fiorentina. Immediatamente i suoi contatti animalisti commentano la foto: sono esterrefatti, perché da lui non se lo aspettavano, e gli scrivono che è un ipocrita. L’uomo si prodiga ad eliminare subito la foto, e a difendere la sua virtuosa immagine ormai compromessa nei messaggi privati di sdegno che riceve.
Analizzando l’etimologia di Ipocrisia, scopriremo perché il nostro immaginario animalista abbia avuto questa reazione. Ipocrisia deriva dal greco ypokrisis, che significa “rappresentazione di un attore”, “finzione”, “simulazione di virtù allo scopo di ingannare”. L’ipocrita cercherà di far percepire se stesso come “senza peccato e al di sopra delle bassezze altrui”, ma è consapevole di non esserlo. Il suo comportamento dunque è doloso, poiché sa di prendere in giro chi lo legge.
Andando al di là dei giudizi morali e del nostro orientamento sull’argomento preso ad esempio, possiamo utilizzare come spunto di ricerca, per chi utilizza i social ovviamente, i nostri post “schierati”, analizzando lo scopo che ci ha spinto a scriverli. Quando si è qualcosa, lo si è, non c’è bisogno di dichiararlo; ciò che invece necessita di essere giustificato è finzione, simulazione. Chiedendoci, inoltre, “a cosa serve” un nostro post, comprendiamo qual è il nostro reale intento nel condividerlo.