Quando si intraprende un percorso di ricerca interiore, si può correre il rischio di etichettare alcuni oggetti come “utili e validi “, e altri come “inutili” o “di minore importanza”. Ad esempio, in una fase iniziale di questo percorso, alcuni aspiranti ricercatori possono prediligere esclusivamente film d’autore, libri dal contenuto profondo, e scegliere di relazionarsi solo con contesti spirituali o intellettuali, scartando così l’osservazione di moltissimi altri eventi e oggetti della quotidianità. È un rischio insidioso, dovuto alla convinzione che esista qualcosa di superiore e che valga quindi la pena indagare, e qualcos’altro di inferiore.
In realtà, il campo di indagine del ricercatore è la quotidianità, ovvero ogni forma esistente con cui possiamo relazionarci, da quella apparentemente più insignificante o che ci crea disgusto, come possono essere ad esempio alcuni insetti, a quelle che incutono timore o che veicolano un contenuto comunemente ritenuto stupido e superficiale.
Occorre infatti tenere a mente che la facoltà di apprendere, di imparare qualcosa, si attiva in ogni contesto, anche quando ci relazioniamo con qualcosa di afflitto; nell’interazione con esso sentiamo qualcosa che si muove dentro di noi, che ci perturba, ed è questa sensazione che dobbiamo indagare. Comprendiamo chi siamo entrando in contatto con ciò che è reale, ma soprattutto entrando in contatto con ciò che non lo è, cosi che lo possiamo riconoscere successivamente.
Possiamo dunque guardare dei film d’autore, ma anche comici o demenziali, “brutti”, secondo i canoni della critica ordinaria, e tuttavia trovare qualcosa da imparare in ognuno di essi, perché tutti provengono dalla stessa dimensione in cui noi siamo declinati. Quindi, ci sono “opere belle” e “opere brutte”? No, ci sono opere, e ognuna parla di qualcosa. Anche in una struttura apparentemente afflitta abbiamo qualcosa che si mostra, e se lo riusciamo a cogliere, il beneficio che otterremo sarà lo stesso della visione di un’opera sublime.