Nel percorso di ricerca di sé è di primaria importanza imparare a prendersi la responsabilità di ogni cosa che accade, percependosi sempre come il soggetto e la causa di ogni evento. Poiché il Transiente non ha un’identità e la sta cercando, per fare esperienza di sé in questa dimensione utilizza come ancoraggio il veicolo del corpo fisico. Il corpo fisico non è solo la struttura anatomica che studiamo a scuola: è una sofisticata tecnologia e un’entità programmata, formata da una parte fissa e da una parte variabile. Per semplificare, diciamo che la parte fissa è il punto di osservazione e la parte variabile è l’orizzonte entro cui la parte fissa si muove. Prendendo come esempio il corpo fisico chiamato “Anna”, nella sua essenza di intero formato da due metà, quando la parte fissa di “Anna” interagisce con i colleghi, con il fruttivendolo di fiducia, con i genitori, e così via, significa che si sta relazionando con la sua parte variabile.

Il Transiente si identifica con il corpo fisico in cui si trova, e ne vive la storia: il corpo gli fornisce infatti un ancoraggio identitario temporaneo, mentre egli è in cerca della sua vera identità. Dunque, se qualcosa non è scritto nel programma di quel corpo, il Transiente non lo potrà sperimentare. Questo significa che ogni cosa che si esprime nella nostra parte variabile è stata progettata per noi. Ecco perché è necessario che ci percepiamo e agiamo come soggetti attivi nella nostra quotidianità. Al contrario, il diffuso atteggiamento passivo di molti essere umani fa sì che essi si sentano in balia del caso, schiacciati dagli eventi e incapaci di dare loro un senso o di riconoscerne la sequenzialità logica e funzionale. Questa passività include anche il contesto relazionale: se non riusciamo a comunicare e/o a farci comprendere da qualcuno, tendiamo ad affibbiargli la colpa, escludendoci dall’equazione che delinea il problema comunicativo, come se l’altro fosse qualcosa di avulso a noi.

Immaginiamo ad esempio di chiedere a un nuovo collega di produrre una dettagliata relazione su un progetto, e che egli ci consegni pochi fogli stropicciati, redatti in modo approssimativo e confusionario. Il feedback ricevuto ci fa sentire frustrati e infastiditi, e ne attribuiamo la colpa al collega. Supponiamo invece di agire in modo diverso, chiedendoci cosa ci innervosisce del suo comportamento: magari lo viviamo come “mancanza di rispetto”, oppure ci sentiamo “presi in giro”, o anche “incapaci di istruire qualcuno”. Se immaginiamo la situazione a parti inverse, scopriremo che in quella circostanza probabilmente noi ci saremmo comportati in modo analogo, o lo abbiamo fatto in precedenza, convinti invece di aver fatto del nostro meglio.

Puntare il dito sull’altro non serve ed è inoltre un’illusione: in realtà lo stiamo dirigendo verso noi stessi. Invece di disperdere il nostro potenziale in pensieri di ripicca o frustrazione, possiamo utilizzare il feedback “negativo” della parte variabile, per indagare le nostre vulnerabilità: quelle zona d’ombra che non vogliamo guardare, e che per questo giudichiamo e rifiutiamo quando si esprimono davanti a noi.

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