Il modello di conformità della società in cui viviamo, che si riflette anche nell’operato del principio egoista dentro di noi, ritiene importanti elementi superflui e illusori come la “buona reputazione”. Cosa si intende comunemente con questo? In estrema sintesi, è l’aderenza o meno al modello di conformità, aderenza che è tra l’altro esclusivamente formale, come abbiamo visto ad esempio in questo articolo sul vizio. Il valore di un oggetto o di un ruolo non viene valutato per la sua funzione, ma per altri “orpelli” che non hanno nulla a che fare con essa. Per esempio, se un imprenditore di successo, che ha creato da zero un impero finanziario, dando lavoro a moltissime persone, viene paparazzato in un night club, l’opinione comune lo addita immediatamente come persona e lavoratore poco affidabile, equiparando le scelte della vita privata con la sua professionalità.
Il concetto di reputazione è appunto correlato alle opinioni, che sono giudizi senza fondamento né cognizione di causa. Quando un’opinione ha origine dall’invidia verso i successi di qualcuno, si declina inoltre in insinuazione o delazione, un veleno che agisce e si diffonde rapidamente, a causa della diffusa inerzia nel verificare la veridicità di un’informazione. Basta infatti una frase maliziosa su una persona, per far crescere il seme del dubbio in chi la ascolta; in poche ore un medico che ha salvato tante vite diventa, ad esempio, un pedofilo o un maniaco, e di conseguenza acquisisce anche la reputazione di medico inaffidabile. È interessante osservare la rapidità con cui la reputazione di qualcuno vira da buona a cattiva: tale velocità denota che si tratta di un oggetto illusorio.
Se lavoriamo su noi stessi è importante osservare cosa è per noi la reputazione, e il suo legame con il giudizio dell’operato altrui. Una parte di noi, quella egoista, prova rancore verso chi si è messo in movimento ottenendo dei risultati, e che con i suoi successi ci mostra di riflesso la nostra inerzia e paura. Da quell’invidia latente deriva altresì l’aspettativa di vedere fallire gli altri; possiamo percepirla quando scopriamo che il nostro perfetto vicino di casa o anche un personaggio famoso fanno qualcosa di illegale, o una figuraccia. L’egoista in noi spinge la nostra attenzione verso il gossip, in tutte le sue forme, perché essendo basato su un rigido modello di conformità, agisce come giudice implacabile delle défaillance e della reputazione altrui.
Se però analizziamo l’etimologia della parola, scopriamo che Reputare originariamente significa: “potare, tagliare i rami secchi”, e “separare gli orpelli dall’oro”. Indica dunque la pulizia e sfrondatura di un oggetto da quello che è superfluo, ovvero che non determina la sua funzione. Esprimere giudizi superficiali implica, dunque, un uso corrotto della parola reputazione. L’unica cosa che conta e che vale la pena di reputare di un oggetto è infatti la sua funzione: se la esegue correttamente, le opinioni a contorno del suo operato sono solo degli inutili orpelli.