Nello stato naturale, la Simpatia è un processo che scaturisce naturalmente dall’empatia, che abbiamo analizzato nell’ articolo precedente, ed etimologicamente indica la compartecipazione al pathos, alla sofferenza di qualcuno. Dal punto di vista afflitto, invece, la stessa empatia si scinde in due “schieramenti”, simpatia e antipatia, portandoci a distinguere ciò che per noi è “ok” e ha un valore positivo, da qualcos’altro che ne ha uno negativo.
L’assegnazione del valore è collegata alla formalità e alle convenzioni appartenenti a uno specifico contesto sociale, culturale e così via; l’aderenza ad esse indica che il proprio comportamento è adeguato a quel contesto e dunque accettabile. Facciamo un esempio. Le convenzioni sociali richiedono comunemente che la compartecipazione a un lutto altrui avvenga in uno o più dei seguenti modi: piangere e disperarsi, condividere le proprie analoghe esperienze, mostrarsi tristi, fare le condoglianze, mandare dei fiori e così via. In questo caso il processo è definibile come simpatico in quanto adeguato, coerente, e dunque di valore positivo.
In realtà, se ognuno di noi si comportasse in base al proprio sentire naturale, parteciperebbe a quello stesso evento in diversi modi. Qualcuno potrebbe fare delle battute per far ridere la persona in lutto, o la porterebbe al cinema; altri non andrebbero al funerale; altri ancora contribuirebbero con la propria silenziosa e discreta presenza, stando in disparte. Questi comportamenti sarebbero però ritenuti “strani” o “non conformi”, perché non aderenti a quei punti di stabilità che delimitano il giusto comportamento in quel contesto.
Come possiamo utilizzare questa indagine per la nostra ricerca? Sarebbe stupido entrare in conflitto con uno spazio in modo destabilizzante solo per fare i “bastian contrario”. È invece utile osservare cosa sorge in noi quando compiamo dei gesti che simulano il nostro sentire, rilevando quanto questi siano privi di significato, e ci distacchino dall’autentica partecipazione all’evento che abbiamo davanti.