Come abbiamo visto nell’articolo precedente, troviamo noi stessi mettendo in atto il nostro infinito potenziale di ricontestualizzazione, vivendo la nostra funzione nella quotidianità. Ma cosa significa questo, in parole semplici?

Proviamo a comprenderlo con un esempio. Immaginiamo di vedere per la prima volta un orologio. Lo prendiamo in mano, studiandone la forma; ci soffermiamo poi a osservarne il quadrante, notando che ci sono dei numeri, e due frecce che si muovono a intervalli di tempo regolari. Raccogliendo dati sullo spostamento delle freccette in specifici momenti della giornata, scopriamo che quell’oggetto serve a leggere l’ora. Ne abbiamo compreso il meccanismo di funzionamento, ma questo non implica che abbiamo appreso in toto cosa è un orologio. Per affermare di conoscere questo oggetto, dobbiamo essere in grado di utilizzarlo e riconoscerlo in contesti differenti e nelle sue diverse declinazioni: ad esempio come orologio a pendolo, nei battiti che provengono da un campanile, in una sveglia, oppure in formato digitale in uno smartphone. Scopriremo inoltre che l’orologio misura ad esempio anche le diverse velocità degli atleti in una competizione sportiva, nell’espressione del timer, o la lunghezza di un video in streaming, la durata di un viaggio in treno, e così via.

Al pari di un orologio, noi siamo degli strumenti, e abbiamo una specifica e unica funzione all’interno del sistema naturale. Scopriamo la nostra identità vivendo la quotidianità, ovvero mettendo in movimento la nostra funzione nei contesti con cui ci rapportiamo, e che la vita ci mette davanti, senza pregiudizi o resistenze di sorta. È l’egoista dentro di noi che ci induce a mettere in atto una resistenza, e che ci fa restare ancorati a pochi e rassicuranti ruoli, impedendoci quindi una ricontestualizzazione, e impedendo di fatto la nostra evoluzione.

Immaginiamo ad esempio di essere manager di un’azienda da vent’anni: abbiamo una segretaria, un autista, indossiamo vestiti costosi, siamo abituati a gestire un team di persone, organizziamo riunioni e presentazioni, e viaggiamo spesso all’estero. Un giorno, improvvisamente, siamo costretti a iniziare un nuovo lavoro, completamente diverso dal precedente, per esempio quello di addetto alle pulizie delle strade. Se rimaniamo attaccati al vecchio contesto, proveremo una sensazione di rifiuto e fastidio nei confronti della nuova esperienza, e ci sentiremo e muoveremo come “pesci fuor d’acqua”. Per esempio, spazzeremo la strada in modo frettoloso per la vergogna che qualcuno possa vederci, oppure non proveremo neanche a farlo, sostenendo che “non ci abbassiamo a fare queste cose”, testimoniando in questo modo la nostra inabilità a metterci in gioco in diversi contesti e la totale identificazione con il ruolo precedente.

Come agisce invece un aspirante esploratore? Non rifiuta il cambiamento, perché sa che tutto ciò che gli arriva è utile a scoprire la sua identità, e sa che la ricerca di ciò che egli è comprende ogni cosa nel suo orizzonte. Quindi, nell’esempio appena fatto, spazzerà la strada con lo stesso impegno e responsabilità che metteva nel precedente lavoro, imparando perfettamente il suo compito. È infatti solo calandoci a pieno nei diversi ruoli che svolgiamo che possiamo osservare cosa siamo in relazione a uno specifico contesto, e riconoscere il nostro “sapore” e la nostra unicità. La funzione di ognuno ha un’eleganza rappresentativa, è come una firma inconfondibile posta sull’azione che stiamo compiendo. E quando agiamo da ricercatori, siamo come degli esperti pittori che mettono un po’ di se stessi in ogni opera, e questo è percepibile da chi la guarda.

 

 

 

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